
Gli squilibri economici ristrutturano il mondo Rimettere in primo piano l’economia interna
Crisi economica USA
Un altro campo di battaglia, la spesa pubblica
La guerra economica USA-CINA. La multipolarità valutaria
La “Bretton Woods 2.0” della Cina per emanciparsi dalle infrastrutture finanziarie occidentali
Una nuova Via della Seta digitale
La svalutazione del dollaro e le sue conseguenze
Demolizione controllata del dollaro? Il multipolarismo valutario
Globalizzazione e globalismo
Il protezionismo è lo strumento necessario a governare la transizione
Che fare?
L’enorme debito pubblico statunitense [1] così come la posizione finanziaria netta negativa degli USA [2] che comprende lo squilibrio della bilancia commerciale (eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni, che è come vivere al di sopra delle proprie possibilità) peraltro in condizioni di dedollarizzazione sono diventati sempre più difficilmente gestibili. Per affrontare questa difficile situazione, Trump tenta di prendere il toro per le corna con la strategia dei dazi. Egli, infatti, non intende ricorrere ad un aumento della pressione fiscale sui cittadini statunitensi ed ha anzi chiesto al Congresso di abolire l’imposta sul reddito. “Non abbiamo bisogno di tassare a morte la nostra gente”, “Dobbiamo tassare i paesi che si approfittano di noi.” Ha perciò avanzato l’idea di sostituire il gettito derivante dall’imposta sul reddito con entrate provenienti da dazi sulle merci importate. Questo approccio si ispira ad un modello storico, quando gli Stati Uniti finanziavano il governo principalmente attraverso i dazi, prima dell’introduzione dell’imposta sul reddito nel 1913.
Un altro campo di battaglia, la spesa pubblica
Trump mira al suo abbattimento, come nel caso dello smantellamento dell’Usaid da parte del DOGE e, almeno nelle intenzioni manifestate, pare voler tagliare anche l’enorme spesa militare degli Stati Uniti, una somma annuale prossima al trilione di dollari, senza contare quella in campo nucleare tradizionalmente allocata nel capitolo di spesa per l’energia.
La spesa militare degli USA supera quella dei successivi dodici Paesi nella classifica mondiale. Tale spesa è divenuta ormai difficilmente sostenibile per gli Stati Uniti che hanno più di 800 basi militari, sparse in 80 diversi paesi del mondo.
Ovviamente tutto questo non basta e l’imposizione di tariffe ai paesi esportatori negli USA dovrebbe dare agli USA, nelle speranze di Trump, un’altro contributo consistente. Oltretutto i dazi avrebbero dovuto avere un effetto collaterale assai desiderabile per i suoi scopi: l’abbassamento dei rendimenti obbligazionari dei titoli del Tesoro USA e con essi la riduzione del costo per interessi del debito. Il terremoto provocato dai dazi ha infatti, dapprima, provocato il crollo del mercato azionario spingendo di conseguenza molti investitori a rivolgersi al mercato obbligazionario ma lo spostamento è stato esiguo e si è quasi subito esaurito. Il mancato aumento della domanda di titoli di stato USA, anche senza una massiccia vendita cinese di titoli del Tesoro USA, ha creato una situazione assai preoccupante che avrebbe potuto portare a gravi conseguenze. Ed ecco la sospensione trimestrale causata da ottime ragioni [**].
Anche il rendimento dei titoli a lunga scadenza è aumentato invece di diminuire indicando mancanza di fiducia negli investimenti nell’economia reale. I dazi, quindi, avevano provocato il desiderato crollo dei mercati azionari, spingendo come previsto gli investitori verso i titoli di Stato americani, considerati un bene rifugio (safe assets). Tuttavia, nel periodo immediatamente successivo, i rendimenti dei Treasury sono risaliti, superando il 4,50% per il decennale (alti rendimenti sui decennali sono un cattivo segnale [3]), un aumento che è stato attribuito a fattori come l’inflazione e alla vendita di titoli statunitensi da parte di Paesi come la Cina.
La strategia di Trump, che mirava a creare un clima recessivo in campo finanziario per abbassare i rendimenti e facilitare l’emissione di nuovo debito, si è rivelata più complessa del previsto. Il deprezzamento dei titoli di stato USA e il crollo del mercato azionario hanno costituito un segnale allarmante per i fondi pensione da cui dipendono il 50% dei consumi statunitensi. La normale aspettativa nel caso di mercato instabili, che gli investitori riducano l’esposizione al rischio vendendo azioni e acquistando titoli sicuri a reddito fisso, creando un naturale effetto compensativo è stata contraddetta dai movimenti effettivi del mercato. Quando entrambe le classi di attivi subiscono perdite simultanee, come accaduto, si verifica un raro scenario di doppio ribasso che amplifica le perdite e vanifica le tradizionali strategie di diversificazione.
Trump sperava, con la sua strategia, di superare le resistenze della FED rispetto ad un abbassamento del tasso di interesse, condizione necessaria all’immissione di liquidità a più basso costo per investimenti nell’economia produttiva per facilitare la desiderata reindustrializzazione di un’economia ormai troppo finanziarizzata. Alte tariffe, come vedremo, servono a convincere le imprese dei paesi che le subiscono a delocalizzare negli Stati Uniti. L’abbassamento dei tassi avrebbe tra l’altro diminuito i costi per interessi del debito pubblico.
La guerra economica USA-CINA. La multipolarità valutaria
La tensione tra Stati Uniti e Cina è sfociata in aperto conflitto economico. Donald Trump ha accusato la Cina di pratiche commerciali sleali, come sussidi illegali e manipolazione valutaria, culminando nell’imposizione di tariffe del 104% sui beni cinesi, di fatto raddoppiandone i prezzi.
La risposta di Pechino, inizialmente silenziosa, si è rivelata una mossa audace e potenzialmente trasformativa per l’ordine finanziario globale. La Cina ha ufficialmente integrato il suo Yuan Digitale (e-CNY) [4], nel sistema di pagamenti internazionali. L’introduzione dello e-CNY non è legata al valore dell’oro, poiché il dollaro USA, dal 1971 non è più supportato dall’oro. Indica invece una tendenza verso la multipolarità valutaria, con più valute utilizzate negli investimenti e nei regolamenti globali, in linea con gli obiettivi a lungo termine dei BRICS plus.
Questa integrazione coinvolge i dieci paesi dell’ASEAN (nazioni del sud-est asiatico) e sei nazioni del Medio Oriente. Il commercio tra Cina e ASEAN ha registrato una crescita significativa, raggiungendo circa 975 miliardi di dollari nel 2022, con un aumento del 120% dal 2013, rendendo l’ASEAN il principale partner commerciale della Cina. Questa mossa strategica implica che oltre il 38% del commercio globale potrà ora bypassare il sistema occidentale di pagamenti SWIFT, storicamente dominato dal dollaro americano.
Questa reazione cinese arriva in un momento di aumento dei dazi americani e di incrinatura della fiducia nel sistema occidentale. Con essa la Cina costruisce ponti alternativi, laddove gli USA elevano barriere, ponti che permetteranno di scavalcare i centri finanziari tradizionali di New York e Londra.
L’impatto dei dazi americani, sebbene mirato alla Cina, rischia di avere un contraccolpo significativo sull’economia americana. Nel 2023, gli Stati Uniti hanno importato dalla Cina beni per oltre 440 miliardi di dollari, molti dei quali sono prodotti di uso quotidiano, elettronica e componenti industriali. L’aumento dei costi dovuto ai dazi potrebbe portare a un raddoppio dei prezzi per i consumatori americani, mettendo a dura prova le imprese che dipendono dalle forniture cinesi. Il sogno di Trump di riportare la produzione in America si scontra con la realtà di costi più elevati, scarsità di materie prime a basso costo e mancanza di tecnici e manodopera competitiva. Inoltre, la Cina detiene un quasi monopolio sulle terre rare e altri metalli industriali cruciali per le nuove tecnologie, e ha già iniziato a limitarne l’esportazione.
La “Bretton Woods 2.0” della Cina per emanciparsi dalle infrastrutture finanziarie occidentali
La risposta della Cina è un’azione che accelera la dedollarizzazione, un processo che mira a ridurre la dipendenza globale dal dollaro americano, una risposta strutturale a decenni di politica estera americana che hanno spinto interi blocchi economici (BRICS+) a cercare alternative. L’alleanza strategica con i paesi dell’ASEAN, che rappresentano il principale partner commerciale della Cina con un interscambio di quasi 1000 miliardi di dollari nel 2022, non è casuale. L’integrazione dello Yuan Digitale con queste economie non solo facilita gli scambi, ma costruisce un sistema finanziario parallelo, rafforzando la sovranità economica.
I vantaggi di questa nuova infrastruttura sono enormi. I tempi di regolamento delle transazioni si riducono da 3-5 giorni a soli 7 secondi, e le commissioni potrebbero crollare del 98%. Questa velocità e riduzione dei costi rendono i vecchi sistemi più obsoleti e rischiano di marginalizzare chi ne resta fuori. Una nuova Via della Seta digitale che mette le ali a quella analogica creando un sistema in cui investimenti infrastrutturali e flussi commerciali possono sostenersi a vicenda, bypassando Washington.
Le imprese possono già effettuare pagamenti in tempo reale con il Medio Oriente, e le banche centrali asiatiche hanno accesso a un sistema alternativo. Ogni transazione in Yuan Digitale (e-CNY) riduce gradualmente la dipendenza dal dollaro, tracciando la strada verso una multipolarità valutaria, dove diverse valute forti coesisteranno e si contenderanno il ruolo di riferimento. Questo è anche l’obiettivo dei BRICS plus: rendere il commercio globale più equo e meno esposto ai rischi legati a una singola moneta. La piattaforma di pagamenti cinese è pensata per rafforzare l’Asia, rendendo le economie locali più resilienti e consolidando la leadership economica della Cina nella sua regione. La Cina, promuovendo attivamente l’uso dello Yuan digitale negli scambi internazionali con oltre 20 paesi in via di sviluppo, più che una guerra commerciale sta facendo una guerra di sistema. Il vecchio mondo fatto di dazi e dollari comincia ad essere sostituito da un nuovo ordine economico multivalutario basato su app, criptovalute statali e pagamenti digitali. L’affermazione della Cina nel promuovere il suo sistema di pagamento digitale pare rappresentare una sfida diretta all’ordine economico globale in cui il dollaro ha tradizionalmente avuto un ruolo centrale.
Il futuro del dollaro è segnato da un declino graduale ma inesorabile, non venendo sostituito da un’unica alternativa, ma affiancato e potenzialmente superato da un sistema più multipolare. Il mondo cerca equilibrio e sovranità, e il sistema digitale cinese rappresenta uno degli strumenti in questa direzione. Sta emergendo un nuovo ordine valutario globale, simile a una rete decentralizzata che sostituisce inesorabilmente la centralizzazione finanziaria occidentale.
La via d’uscita obbligata per l’Europa starebbe nel ricostruire dialogo e cooperazione con Cina e Russia. Trump con questo nuovo corso vuole impedire all’Europa occidentale e ai partner degli Stati Uniti di diventare sempre più collaborativi con i BRICS, temendo che un tale processo di avvicinamento possa portare a un declino strutturale degli Stati Uniti.
La svalutazione del dollaro e le sue conseguenze
Si potrebbe sospettare che l’attacco alla Cina sia stato voluto per consegnarle la patata bollente del dilemma di Triffin [5] non più sopportabile dagli Stati Uniti ma che la Cina abilmente non raccoglie grazie al suo sistema valutario multipolare.
Un indizio in tale direzione è la svalutazione del dollaro che, in seguito alle mosse di Trump ha perso valore rispetto alle principali valute internazionali. L’indebolimento è stato attribuito a diversi fattori, tra cui le tensioni commerciali legate ai dazi imposti dagli Stati Uniti e l’incertezza economica globale. Ad esempio, l’euro ha guadagnato circa l’1,3%, raggiungendo un valore di 1,1354 dollari, mentre il franco svizzero ha registrato un aumento del 2,42%, attestandosi a 1,2202 dollari. Questa tendenza riflette anche un calo dei rendimenti dei titoli di Stato statunitensi e una crescente sfiducia verso il dollaro come valuta di riserva mondiale.
Un dollaro più debole rispetto alle altre valute internazionali può offrire alcuni vantaggi strategici agli Stati Uniti, soprattutto in ambito economico e commerciale. Si potrebbe registrare un incremento delle esportazioni. Con un dollaro più debole, infatti, i beni e servizi prodotti negli Stati Uniti diventano più convenienti per i compratori stranieri. Questo può aumentare la competitività delle aziende statunitensi, espandere la domanda per i prodotti americani sui mercati globali e stimolare il settore manifatturiero e l’occupazione negli Stati Uniti. Gli USA grazie alla svalutazione possono quindi ottenere una riduzione del deficit commerciale. Gli americani potrebbero acquistare meno beni dall’estero, favorendo la produzione locale ottenendo così uno stimolo alla crescita economica. In altre parole, con maggiori esportazioni e un aumento dell’attività produttiva interna, l’economia statunitense potrebbe beneficiare di una crescita più robusta, favorendo la ripresa in periodi di rallentamento.
Su un altro versante, la svalutazione consente un maggior valore dei debiti in dollari per i creditori esteri. Per i Paesi che detengono debiti denominati in dollari, un dollaro debole rende più gestibili i pagamenti. Questo perché quando un Paese o un’azienda ha un debito denominato in dollari, i pagamenti (sia del capitale che degli interessi) devono essere effettuati in dollari. Se la valuta del Paese debitore si rafforza rispetto al dollaro (o se il dollaro si svaluta), il debito diventa meno oneroso in termini di valuta locale. Questo è vantaggioso per il debitore. Tuttavia, il vantaggio è relativo al debitore e non influisce direttamente sugli Stati Uniti, che non sono i beneficiari di questa dinamica.
Va messo in conto anche una maggiore attrattiva per il turismo che rappresenta quasi l’8% del PIL USA. I turisti stranieri saranno più incentivati a visitare gli Stati Uniti, dato che il loro denaro guadagna maggiore potere d’acquisto in un Paese con una valuta indebolita.
Ovviamente nonostante i vantaggi, un dollaro debole può creare difficoltà, come maggiori costi per le importazioni (ad esempio petrolio) e impatti negativi sulle aziende che dipendono da beni di consumo esteri e al solito causare pressioni inflazionistiche.
Sul versante prettamente finanziario un dollaro debole può avere diverse conseguenze sulla vendita dei titoli del Tesoro americani e sui costi per interessi. Può, infatti, costituire un’attrattiva per gli investitori stranieri grazie all’effetto positivo di rendere i titoli del Tesoro più economici per gli investitori stranieri, poiché possono acquistare più titoli con la loro valuta locale. Questo potrebbe aumentare la domanda per i Treasury. Ricordiamo che entro il 2025 gli USA devono rimpiazzare 9,2 trilioni di titoli in scadenza…
Inevitabile tuttavia che gli investitori potrebbero preoccuparsi di ulteriori svalutazioni del dollaro, che ridurrebbero il valore reale dei loro investimenti.
Per di più se la domanda per i titoli del Tesoro dovesse diminuire a causa della sfiducia nel dollaro, il governo americano potrebbe essere costretto a offrire rendimenti più alti per attirare acquirenti e questo aumenterebbe il costo per interessi del debito pubblico accelerandone oltretutto la crescita.
Per i detentori stranieri di titoli del Tesoro, un dollaro debole riduce il valore reale dei pagamenti di interessi e del capitale in termini di valuta locale e questo potrebbe spingere alcuni Paesi a ridurre le loro riserve in Treasury. Quando il dollaro si indebolisce, i pagamenti degli interessi e del capitale dei titoli del Tesoro (denominati in dollari) perdono valore in termini di altre valute. Per esempio, se la valuta di un Paese come la Cina si rafforza rispetto al dollaro, essendo possessore di grandi quantità di Treasury i rendimenti effettivi di questi titoli saranno inferiori in termini di valuta locale.
Questo rende i titoli meno attraenti per i Paesi che vogliono massimizzare i loro investimenti e infatti, essendo che il valore del debito denominato in dollari diminuisce, alcuni Paesi potrebbero decidere di diversificare le loro riserve valutarie, spostandosi verso altre valute (ad esempio euro o yuan). La vendita di titoli del Tesoro in grandi volumi può aumentare l’offerta di Treasury sul mercato, riducendone il valore. Può anche spingere verso l’alto i rendimenti, poiché il governo USA dovrebbe offrire interessi più alti per attrarre nuovi investitori.
Demolizione controllata del dollaro? Il multipolarismo valutario
Sono molti i segnali che inducono a pensare che siamo alla fine dell’impero del dollaro e di un sistema basato su una valuta internazionale stampata da uno stato, la fine del nuovo ordine mondiale incentrato sull’egemonia americana. Come su accennato, stiamo entrando in un sistema di multipolarismo valutario [6]. Le banche centrali stanno acquistando massicciamente oro, sostituendolo al dollaro come riserva pregiata. JP Morgan ha dichiarato che “l’oro è moneta, tutto il resto è credito“. L’oro rimane il bene rifugio per eccellenza. Nella attuale situazione la sua domanda sembra destinata a crescere in proporzione alla perdita di fiducia nelle valute dominanti e nelle criptovalute come il Bitcoin, estremamente volatili, prive di sottostante, deflazionarie ed altamente speculative.
Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, il più grande gestore di fondi al mondo, nella sua annuale lettera agli investitori, lancia un allarme gravissimo sullo stato di salute dell’economia statunitense, prevedendo una progressiva perdita di solidità che minaccerebbe seriamente lo status internazionale del dollaro. A suo dire, la disponibilità globale a finanziare gli Stati Uniti a bassi tassi di interesse potrebbe venir meno a causa del rapido aumento del debito federale. Entro il 2030, le spese fisse del governo USA e il servizio del debito assorbiranno tutte le entrate federali, creando un debito permanente. La conclusione di Fink è perentoria: se il debito non verrà riportato sotto controllo, gli Stati Uniti rischiano di perdere il ruolo di emittente della moneta di riserva internazionale a beneficio di asset digitali come Bitcoin. Dietro questo monito, sembra, più che altro, celarsi una forte opposizione alle politiche daziarie di Trump, considerate pericolosissime per la tenuta dei mercati finanziari, sui quali i grandi fondi come BlackRock ancora poggiano. Fink, e le “Big Three” di cui è parte integrante, inviano un segnale inequivocabile alla presidenza americana. Trump, dal canto suo, appare convinto della necessità dei dazi per ridurre il deficit commerciale e incrementare le entrate fiscali, ritenendo o sperando che il mercato americano rimarrà comunque attrattivo per i produttori europei. Questa divergenza di vedute ha il sapore di una vera e propria guerra tra la finanza globale e la politica protezionistica americana. In questo scenario turbolento, l’Europa sembra emergere, agli occhi di Fink, come una potenziale “terra promessa” per gli investimenti. Il piano di riarmo europeo, insieme alla spinta verso un mercato di capitali unico, rappresenta una nuova bolla in grado di attrarre i capitali gestiti dai grandi fondi. Paradossalmente, l’Europa di Ursula von der Leyen fornirebbe a Larry Fink gli strumenti per esercitare pressione su Trump, minacciando il futuro del dollaro. Un elemento sorprendente nella visione di Fink è la sua apertura verso Bitcoin, considerato non più un asset da evitare ma la valuta del futuro ignorando o occultando la natura pericolosamente deflattiva del bitcoin. Questa mossa, apparentemente in contraddizione con l’elogio dell’Europa, si spiega forse con la volontà di individuare una moneta svincolata dal controllo statale, che possa diventare il nuovo punto di riferimento per la finanza globale, creando al contempo un’autostrada per una nuova bolla speculativa.
Nel frattempo i BRICS plus si stanno progressivamente emancipando dall’uso del dollaro e dalle istituzioni economiche occidentali ad esso legate iniziando un processo di liberazione da tale strumento di potenza e di dominio che avevano sin qui subito.
Un esempio importante, oltre al già visto Yuan digitale, è il sistema cinese per i pagamenti transfrontalieri, simile ed alternativo allo SWIFT, il CIPS (Cross-Border Interbank Payment System). Esso è stato sviluppato per facilitare le transazioni internazionali in yuan e per ridurre la dipendenza dal sistema SWIFT e dal dollaro. CIPS è integrato con la Belt and Road Initiative e mira a promuovere l’internazionalizzazione dello yuan, offrendo un’alternativa rapida e meno costosa per i trasferimenti globali.
Parallelamente a questi sconvolgimenti macroeconomici, si profila un cambiamento radicale nella strategia di investimento dei grandi fondi, con una crescente attenzione verso il “credito privato“, in particolare nel settore delle infrastrutture. Questo significa che, invece di affidarsi esclusivamente ai mercati pubblici per finanziare progetti infrastrutturali, intendono utilizzare capitali privati per sostenere investimenti a lungo termine per modernizzare le infrastrutture esistenti, come strade, ponti e reti elettriche, costruire nuove infrastrutture, soprattutto nei Paesi emergenti e investire in infrastrutture sostenibili, come energie rinnovabili e trasporti a “basse emissioni”. Se tradizionalmente, le infrastrutture venivano finanziate da governi e istituzioni pubbliche oggi, con l’aumento del debito pubblico i fondi privati si sostituiscono agli investimenti statali. Anche per questa via avanzano privatizzazione e finanziarizzazione.
Fink stima un fabbisogno mondiale di 70.000 miliardi di dollari di investimenti infrastrutturali, un mercato nel quale BlackRock intende giocare un ruolo da protagonista, puntando a far diventare questo settore il 20% del proprio portafoglio. Questa tendenza si traduce in una spinta verso la privatizzazione dei monopoli naturali a livello globale, con un massacro del welfare state per costringere i cittadini a sopperire alla mancanza di servizi pubblici essenziali (come pensione e sanità) attraverso strumenti privati. La finanza sfrutta i bisogni dei cittadini, trasformando le tariffe per i servizi pubblici in una fonte di rendimento garantita per i grandi investitori. Le conseguenze di questa riorganizzazione globale potrebbero essere pesanti anche sul fronte del mercato del lavoro e dell’ambiente. Per compensare i dazi americani, si prospetta un ulteriore deterioramento del processo di delocalizzazione e un abbattimento del costo del lavoro e dei costi ambientali, in una sorta di svalutazione interna. Il termine “democratizzazione” degli investimenti, spesso utilizzato da Fink, sottende una maggiore affluenza di risparmio nelle mani dei grandi fondi, potenzialmente a scapito del ruolo dello Stato sociale. In conclusione, il mondo si trova di fronte a una tempesta perfetta finanziaria, caratterizzata dal crollo di una bolla decennale, da un allarme sulla tenuta del dollaro lanciato dal più potente gestore di fondi globale, da una contrapposizione tra la finanza e le politiche protezionistiche, e da una spinta inesorabile verso la privatizzazione dei servizi essenziali.
Tali processi, insieme alla necessità di urgente recupero degli enormi squilibri macroeconomici in termini di debito estero e debito pubblico, rendono oggi assai complicato il processo di reindustrializzazione di cui gli Stati Uniti sentono di avere impellente bisogno.
Per mirare a tale obiettivo è stato necessario dare una grossa spallata alla finanza speculativa, questo mercato abusivo del denaro che si è sviluppato parassitando l’economia reale senza più supportarla, che ha creato nel contempo le strutture sovranazionali che hanno tolto sovranità agli Stati nazionali impedendo alla politica di svolgere il suo ruolo perché contaminata dagli interessi della grande finanza che ha imposto privatizzazioni e finanziarizzazione.
Il progetto in positivo sarebbe quello di ricostruzione di Stati nazionali con le loro economie nazionali che producono il più possibile in loco tutto ciò di cui necessitano esportando soltanto le eccedenze ed importando soltanto quanto non è possibile produrre localmente in termini di risorse strutturalmente mancanti. La transizione in atto mira a portare il mondo dal globalismo che voleva imporre il governo unico globale al recupero dell’esercizio della sovranità da parte degli Stati che hanno abdicato ad essa. In questo senso, si può leggere una sintonia tra la strategia dell’amministrazione Trump con il mondo multipolare in rapida, quanto irreversibile, formazione, in cui si ripongono le speranze di un mondo nuovo, multicentrico, costituito da soggetti nazionali in grado di collaborare prevenendo colonialismo razzismo e imperialismo e relagando le residue volontà egemoniche in un angolo della storia.
I maldestri tentativi del mondo occidentale di recuperare l’egemonia perduta con guerre, dazi e sanzioni, abusivi sequestri delle riserve in dollari, presso le banche occidentali, di cui erano titolari paesi non occidentali, stanno peraltro accelerando la fine della globalizzazione e del vecchio mondo che l’aveva generata. Con la fine della globalizzazione viene meno l’egemonia del dollaro, quale valuta di riserva utilizzata per gli scambi internazionali. Oggi però è proprio la politica protezionista di Trump a catalizzare e a volere la fine del dollaro quale valuta internazionale. I paesi che esportavano verso gli USA hanno accumulato dollari sempre meno utilizzabili proprio grazie alle barriere commerciali, le sanzioni e i sequestri. La valuta più domandata al mondo che ha permesso agli Stati Uniti di costruirsi e mantenere il suo enorme complesso militare industriale con più di 800 basi sparse per il pianeta, vero sottostante del dollaro, perde terreno.
L’imposizione al mondo del dollaro, una moneta nazionale facente le veci di una valuta internazionale, aveva permesso agli USA «il meraviglioso segreto di un deficit senza lacrime, che permette di donare senza prendere, di prestare senza indebitarsi e di comprare senza pagare», parole queste del già ministro delle finanze francese e consulente di de Gaulle J. Rueff. Gli USA, da “vincitori” del secondo conflitto mondiale, imposero al mondo la loro moneta ma soprattutto un sistema di pagamenti reiterante il paradigma della liquidità rigettando quello assai più virtuoso fondato sulla compensazione (clearing) proposto da J.L.M. Keynes che avrebbe risparmiato al mondo gli attuali enormi squilibri strettamente connessi ai tragici scenari di guerra in cui siamo immersi.
Grazie all’esercizio di tale privilegio il mondo intero ha letteralmente lavorato per offrire agli USA prodotti, servizi e materie prime avendone in cambio biglietti verdi. Ma alla lunga non è possibile intervenire sugli squilibri delle partite correnti tra Stati con moneta creata dal nulla senza più avere alle spalle una solida economia produttiva. Conseguenza chiara del già citato dilemma di Triffin, economista americano negli anni 60, che ha messo in evidenza il fatto che quando una nazione fornisce la valuta di riserva e di scambio, ci sarà sempre un momento in cui gli interessi della economia globale entreranno in conflitto con gli interessi dell’economia interna. Per far sì che il resto dell’economia globale funzioni, la nazione che emette la valuta internazionale deve costantemente esportare dollari e importare merci, portando a un costante sbilanciamento della bilancia commerciale. Questo continuo deflusso di dollari provoca una costante inflazione di dollari verso l’esterno. Inoltre, se è più conveniente comprare all’estero, le industrie tendono a fuggire dalla nazione che emette la valuta internazionale, perché ovviamente, i prodotti di importazione vengono privilegiati.
Da qui l’urgenza manifestata dalle ultime amministrazioni USA verso la necessità di reindustrializzare il Paese utilizzando insieme alla strategia dei dazi altri strumenti quali il Chips Act e l’Inflaction Reduction Act per incentivare le industrie di altri paesi a delocalizzare negli USA. A questi incentivi fiscali a delocalizzare negli USA Trump aggiunge le politiche tariffarie atte ad attrarre le aziende ad operare negli USA. La speranza, come vedremo, è quella di ridimensionare la finanziarizzazione dell’economia statunitense trovando modi di gestire l’enorme debito pubblico USA e ridimensionare l’enorme debito estero (posizione finanziaria netta negativa pari a 23 trilioni di dollari) senza aumentare l’imposizione fiscale, sperando in introiti derivanti dalla imposizione delle tariffe e dall’abbassamento del tasso di interesse.
Con obiettivi della stessa natura il GENIUS Act (GA – Guiding and Establishing National Innovation for US Stablecoins), una proposta di legge che provvede a regolamentare le stablecoin, un tipo di criptovaluta ancorata a valute tradizionali come il dollaro. Questo disegno di legge, introdotto nel febbraio 2025, prevede che gli emittenti di stablecoin devono mantenere riserve garantite in titoli del Tesoro 1:1 al fine di incrementare la loro domanda (si consideri che entro il 2025 sarà necessario trovare finanziatori del debito USA per più di 9 trilioni di dollari).
Il GA oltre a imporre il rispetto delle leggi contro il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo controlla così anche l’entità della massa monetaria digitale emessa in stable coin, legandola ad asset reali e sottraendo al contempo la gestione della moneta digitale alla Federal Reserve.
Globalizzazione e globalismo
Il processo di globalizzazione, che ha trasformato la Cina nella fabbrica del mondo e ha permesso la finanziarizzazione dell’economia dei paesi occidentali, ha portato ad enormi squilibri economici generando un fortissimo conflitto tra paesi debitori e paesi creditori. In passato analoghi squilibri economici avevano generato i grandi totalitarismi e con essi le grandi guerre. La globalizzazione aveva premiato tutti quei produttori occidentali che sono andati a ricercare un abbassamento dei costi di produzione in Oriente per ottenere la massimizzazione dei loro profitti avvantaggiandosi dell’inesistenza di normative a protezione dell’ambiente, un basso costo del lavoro ed inesistenti diritti dei lavoratori.
In altri termini, i produttori peggiori, premiati dalla globalizzazione sono stati coloro che hanno vinto la gara della competizione economica imponendo le proprie merci, minimizzando i costi di produzione a discapito delle persone, della società e dell’ambiente. Sono quelli che hanno sfruttato il lavoro dei bambini, che non rispettano la salute dei lavoratori e dei cittadini, non si curano delle scorie tossiche immesse nell’ambiente dai processi produttivi. Hanno proceduto senza alcuna regola, mirando solo alla minimizzazione dei costi di produzione e alla massimizzazione dei profitti. La globalizzazione, con la sua competitività al ribasso (dumping sociale), ha selezionato questo tipo di produttore.
In altre parole le economie eccessivamente aperte e incentrate sulle esportazioni hanno favorito chi è riuscito a offrire prodotti a basso costo e di bassa qualità (low cost), spesso realizzati grazie a bassissimi salari e nessun rispetto per l’ambiente o la salute. Paesi come la Cina e l’India, nella loro prima fase di industrializzazione sono entrati nel mercato internazionale esportando prodotti low cost che hanno contribuito al degrado ambientale. Questo sistema ha portato ad una competizione al ribasso che ha sacrificato la qualità delle produzioni, i diritti dei lavoratori e la tutela ambientale.
Si pensi inoltre a come impattano i dazi sulla globalizzazione della produzione, un sistema in cui le aziende suddividono il processo produttivo in diverse fasi, affidando la fabbricazione di componenti specifici a Paesi o regioni che offrono vantaggi competitivi, come costi più bassi, competenze specializzate o accesso a materie prime. Successivamente, i componenti vengono assemblati in un’unica località per creare il prodotto finale. Per intenderci un’auto potrebbe avere i motori prodotti in Germania, pneumatici fabbricati in Thailandia, sistemi elettronici sviluppati in Giappone e l’assemblaggio finale realizzato negli Stati Uniti o in Messico. Allo stesso modo, nel caso di uno smartphone i chip possono essere prodotti a Taiwan, le batterie in Cina, e l’assemblaggio finale realizzato in India o Vietnam.
L’Unione Europea con la sua moneta unica aveva privilegiato le esportazioni prima di tutto della Germania, e grazie alla deflazione salariale pagata dai lavoratori italiani, anche dell’Italia. Questo sistema si era reso necessario per sostenere il finanziamento degli Stati basato sulla vendita di titoli di debito a soggetti non residenti, un sovvertimento completo della finanza pubblica, a vantaggio dei mercati finanziari, a cui il nostro è stato assoggettato a partire dagli anni ’80. Il corollario è stato la deregolamentazione che ha permesso alle merci, agli umani (processi migratori) e ai capitali di superare qualsiasi confine. Per poter competere nel processo di globalizzazione, abbiamo dovuto calpestare la Costituzione e tutte le normative a protezione del diritto del lavoro tramite deflazione salariale svalutazione interna.
Oggi il mondo è assai cambiato e la globalizzazione fondata sulla deregolamentazione come l’avevamo conosciuta non è più possibile. La Cina è cresciuta enormemente, sottraendo alla povertà milioni di milioni di suoi cittadini, conquistando al contempo un primato scientifico e tecnologico su scala globale. Oggi la Cina è in grado di fornire, grazie al primato tecnologico, prodotti di qualità e a prezzi competitivi con l’Occidente anche perché le sanzioni energetiche alla Russia si sono ritorte contro l’Europa mentre hanno favorito la Cina. Con essa, la Russia, costretta a rinunciare al suo tradizionale rapporto con i paesi europei, ha costruito, infatti, un partenariato economico, politico e militare che appare ormai indissolubile. Entrambi questi paesi sono divenuti le colonne portanti del Sud Globale riorganizzati nei BRICS Plus [7] ed altre istituzioni politico economiche e di sicurezza come nel caso della SCO, la Shanghai Cooperation Organization [8], che ad oggi rappresentano una nuova organizzazione, si direbbe un mondo nuovo che si emancipa finalmente da colonialismo, razzismo e imperialismo imposti dall’Occidente allargato. Essi hanno fondato una inedita partnership tra paesi sovrani.
La strategia di Trump sono gli accordi commerciali bilaterali. Gli Stati Uniti hanno messo in pausa i finanziamenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio e all’Organizzazione Mondiale della Sanità, considerati strumenti del globalismo. Già nel 2018 Trump metteva in discussione l’OMC e i suoi giudici, a cui viceversa la Cina si è appellata in questi giorni perché i dazi vanno contro la dottrina del libero scambio. Si potrebbe pensare che oggi sia la Cina a difendere l’ordine commerciale mondiale. A ben guardare però si scopre che il peso dell’export cinese sul PIL è diminuito drasticamente, passando da oltre il 30% alla fine del primo decennio del secolo a meno del 20% attuale. In confronto, l’Italia ha un export che pesa per il 33% del PIL e la Germania, paese mercantilista per eccellenza, per il 47%. La Cina è perciò meno dipendente dalle esportazioni rispetto a quanto lo fosse in passato ed è piuttosto impegnata a sviluppare ulteriormente il mercato interno quale motore principale della sua crescita.
Il protezionismo è lo strumento necessario a governare la transizione
Come abbiamo visto Trump pare voler provocare una svalutazione del dollaro difendendo al contempo la possibilità di piazzare i titoli del Tesoro americani. La svalutazione gli permetterà di esportare più facilmente rendendo al contempo più difficili le importazioni. Inoltre con la politica aggressiva dei dazi attacca il mondo della finanza in particolare quello dei mercati azionari. L’incertezza generata nei mercati azionari ha l’effetto di sgonfiare la bolla creata dall’amministrazione Biden seppure la conseguenza ricercata di dirigere gli investitori dal mercato azionario a quello obbligazionario e quindi verso i titoli di Stato USA come bene rifugio non ha prodotto gli effetti sperati di calmieramento dei costi del debito per interessi.
Trump cerca il modo di forzare la mano alla Federal Reserve affinché blocchi il prosciugamento di liquidità nell’economia e inverta la tendenza, poiché per ricostruire l’industria americana è necessario immettere molta liquidità, generando così inflazione e l’inflazione come è noto erode il debito. Alla lunga, le tariffe hanno un effetto deflazionistico poiché la domanda viene penalizzata. Questa deflazione indotta potrebbe impedire che l’inflazione generata all’esterno ritorni negli Stati Uniti. In sintesi l’inflazione a breve termine potrebbe rendere più facile ripagare il debito pubblico americano. La riduzione dei costi interni attraverso il secondario effetto deflattivo delle tariffe dovrebbe proteggere l’economia americana dall’inflazione di ritorno migliorando, nelle speranze dell’amministrazione Trump, il potere d’acquisto interno a lungo termine. La svalutazione del dollaro, l’inflazione e la deflazione di lungo corso potrebbero perciò rivelarsi funzionali all’obiettivo di Trump di ricostruire l’industria americana e di passare da un’economia prevalentemente finanziaria a un’economia più industriale. Se la iniziale fase inflazionistica servirebbe a ridurre il peso del debito e svalutare il dollaro a livello internazionale, quella successiva deflazionistica potrebbe scolgere un ruolo protettivo nei confronti dell’economia interna attraverso misure deflazionistiche verso l’obiettivo di ristrutturare l’economia americana e riaffermare la sua indipendenza economica (MAGA).
Che fare?
Con la sovversione della finanza pubblica avvenuta a partire dagli anni ’80 siamo stati costretti a finanziare il nostro paese a debito facendoci prestare soldi sui mercati finanziari vendendo titoli di Stato a soggetti non residenti. La necessità di essere solvibili con il debito ci ha imposto di fare avanzo primario e di procurarci la valuta necessaria dando priorità alle esportazioni. Oltretutto, l’euro, la moneta unica, non ci ha permesso di agire sulla leva del cambio. La conseguenza è stata la necessità di ricorrere alla deflazione salariale e alla svalutazione interna pur di rendere competitive le nostre merci sui mercati internazionali. Quindi bassi salari e abbattimento della domanda interna. Oggi, però, ci sarebbero le condizioni per cambiare a condizione di tornare a usare moneta non a debito. Esiste per questo un piano di salvezza nazionale che può certamente funzionare su scala nazionale. Dal basso possiamo utilizzare il nuovo sistema dei pagamenti offerto da Monethica che utilizza l’Etix una moneta complementare/funzionale la più avanzata al mondo. L’obiettivo è quello di tornare ad esercitare la nostra sovranità monetaria e mirare a riportare in primo piano l’economia interna facendo crescere la domanda interna e sostituire quando possibile le importazioni con produzioni nostrane limitandoci ad esportare le eccedenze per procurarci tutto ciò che non riusciamo a produrre al nostro interno e comprare sui mercati esteri quelle risorse come le materie prime e l’energia che ci mancano. Esportare quindi, solo le eccedenze che si potrebbero imporre sui mercati internazionali ad un “prezzo arbitrario”, senza la necessità di mortificare salari, deregolamentare le normative a protezione della salute e dell’ambiente per essere competitivi. Sarà inoltre importante riprendere le nostre relazioni con Russia e Cina e con tutto l’emergente mondo dei BRICS plus.
Ricordiamo il movimento no global alla fine del secolo scorso col quale è necessario ricongiungersi oggi. Per il nostro paese quella in corsa sarà una novità positiva se sapremo recuperare i nostri punti di forza. La grande capacità produttiva e la grande diversificazione merceologica di cui siamo capaci può permetterci di internalizzare l’economia. Mentre recuperiamo i nostri rapporti con la Russia e in generale con i paesi BRICS dovremmo tornare a rivolgere la nostra attenzione al Mediterraneo e all’Africa sulla scia di quanto abbiamo sempre fatto con Enrico Mattei nel contesto virtuoso della Prima Repubblica.
Utilizzare quindi monete locali e nazionali (biglietti di Stato), in parallelo ad una valuta internazionale per gli scambi delle eccedenze produttive. Questo permetterebbe di minimizzare le importazioni e produrre il più possibile localmente. L’aumento di occupazione, impegnata nella produzione di eccedenze, permetterebbe di procurarsi la valuta straniera (l’euro) da utilizzare sui mercati internazionali per importare prodotti o materie prime non reperibili internamente. Una caratteristica che avvantaggia l’Italia in questa prospettiva è la produzione del “made in Italy”, beni e qualità richiesti dal mercato e di cui l’Italia è produttrice esclusiva. In quest’ottica, difendere l’autenticità del “made in Italy” diventa ancora più importante. Cogliere l’occasione per abbandonare la costrizione alla massimizzazione delle esportazioni, che ha portato al sacrificio dell’economia interna e alla deflazione salariale.
L’economia fondata prevalentemente su politiche incentrate sulle esportazioni, combinate con rigore fiscale e austerità, hanno provocato basse retribuzioni e crescente povertà strutturale. Riorientare l’enorme forza dell’economia italiana a rispondere alle esigenze interne è quindi la strategia chiave da seguire. È necessario riavviare un circolo virtuoso in cui il welfare state, liberando i cittadini da spese sanitarie, trasporti, istruzione ecc., permetta loro un maggiore investimento nei consumi. L’aumento del potere d’acquisto dei lavoratori è un motore per la crescita delle imprese e l’innesco di economie di scala. Le micro e piccole imprese italiane, che pur in condizioni di mercato difficili continuano a operare concentrandosi su risorse reali anziché sulla massimizzazione del profitto, indicano un nuovo modello economico non capitalistico orientato alla soddisfazione dei bisogni interni che bisogna tornare a supportare e rafforzare anche perché importare potrebbe diventare sempre più difficile e costoso. Bisognerà aumentare la spesa pubblica le retribuzioni e le pensioni e valorizzare al massimo le risorse endogene.
Persino Mario Draghi, autore insieme a Jean-Claude Trichet, della lettera (Fate presto!) inviata il 5 agosto 2011 al governo italiano che inaugurò l’austerity e tagli strutturali, durante una recente audizione di fronte alle commissioni Bilancio, Industria e Politiche UE del Senato e della Camera si è incredibilmente chiesto se fosse meglio sviluppare la domanda interna, investire nelle infrastrutture, nella ricerca, nell’innovazione e nel clima, piuttosto che mantenere un gigantesco surplus commerciale con il resto del mondo. Ha sottolineato che lo squilibrio commerciale si è aggravato a partire dalla crisi finanziaria del 2010, evidenziando come la strada dell’austerità e dei salari bassi abbia compresso la domanda interna e limitato l’apertura del mercato europeo, soprattutto per i servizi, che rappresentano il 70% del PIL. Ecco le sue parole: “siamo sicuri che vogliamo mantenere questo gigantesco surplus commerciale con il resto del mondo o piuttosto non e’ meglio sviluppare la domanda interna, non trascurare le nostre infrastrutture, spendere per la ricerca, per l’innovazione, per il clima“. “Notate che non e’ sempre stato cosi’, lo squilibrio commerciale si aggrava a partire dalla crisi finanziaria del 2010“. L’ex-presidente della Bce ha rimarcato ancora che la strada e’ stata quella di “austerita’ e salari bassi” e “questo ha creato una compressione della domanda e nello stesso tempo non abbiamo fatto nulla per aprire il mercato interno e quindi permettere alle nostre imprese di vendere e di estendersi, soprattutto per i servizi, nel resto della Ue. I servizi sono il 70% del Pil e quindi e’ fondamentale aprire e fare un mercato piu’ o meno unico“. Ovviamente il fine di Draghi è altro dal nostro. Egli ci indora la pillola della competitività per gli Stati Uniti d’europa e il debito comune europeo finalizzato alla costruzione della “difesa” comune europea.
[1] A fine 2024, il debito pubblico USA ha raggiunto 36.200 miliardi di dollari, pari al 122,3% del PIL. Il debito pubblico USA è finanziato da Titoli del Tesoro acquistati da investitori privati, fondi pensione e governi stranieri. Titoli detenuti da enti governativi, come il fondo della Social Security. I principali detentori Investitori esteri sono il Giappone e la Cina con rispettivamente 1.100 miliardi e 750 miliardi di dollari.
Ci sono poi gli investitori domestici: Fondi pensione, banche e la Federal Reserve. I costi per interessi ammontano attualmente a quasi 1 trilione di dollari. Naturalmente l’aumento dei rendimenti obbligazionari può rendere più costoso il finanziamento del debito. Entro il 2025, gli Stati Uniti dovranno rifinanziare o rinnovare circa 9,2 trilioni di dollari in titoli del Tesoro.
[2] La posizione finanziaria netta (PFN) rappresenta la differenza tra le attività finanziarie di un’entità statale o federale (come liquidità, crediti finanziari, investimenti) e i suoi debiti finanziari. È un indicatore chiave per valutare la solidità finanziaria di un Paese o di un’azienda. Una PFN positiva indica che le attività superano i debiti, mentre una PFN negativa segnala un indebitamento netto.
La PFN degli Stati Uniti è composta da attività finanziarie: Investimenti esteri, riserve valutarie, e altre attività detenute da istituzioni e cittadini americani. Passività finanziarie: Debiti verso l’estero, inclusi titoli del Tesoro detenuti da investitori stranieri e altre forme di indebitamento. L’ammontare della PFN USA è negativa e pari a 21 trilioni di dollari a fine 2024. Esso è dovuto principalmente al crescente debito pubblico e alla continua dipendenza dagli investimenti esteri per finanziare il deficit commerciale e il debito federale.
[3] Un alto rendimento dei titoli di Stato decennali, come i Treasury americani, può essere considerato un brutto segno per l’economia reale per diversi motivi. Aumento dei costi di finanziamento. Quando i rendimenti dei titoli decennali aumentano, anche i tassi di interesse su prestiti e mutui tendono a salire. Questo rende più costoso per le imprese e i consumatori ottenere credito, riducendo gli investimenti aziendali e la spesa dei consumatori. Segnale di inflazione. Rendimenti più alti possono riflettere aspettative di inflazione futura. L’inflazione erode il potere d’acquisto e può portare le banche centrali ad aumentare i tassi di interesse, rallentando ulteriormente l’economia. Fuga dagli asset rischiosi. Un aumento dei rendimenti può indicare che gli investitori stanno vendendo titoli di Stato per spostarsi verso asset più sicuri, segnalando una perdita di fiducia nei mercati azionari o nell’economia in generale. Impatto sul debito. Con rendimenti più alti, il governo deve pagare interessi maggiori sul debito pubblico, aumentando il peso del debito e riducendo le risorse disponibili per altre spese pubbliche.
[4] La CBDC cinese si chiama DCEP (Digital Currency Electronic Payment), ed è comunemente nota come yuan digitale o e-CNY
[5] Il dilemma di Triffin è una teoria economica elaborata dall’economista belga-americano Robert Triffin negli anni ’60. Si riferisce al conflitto che si verifica quando una valuta nazionale, come il dollaro statunitense, viene utilizzata come valuta di riserva internazionale.
In parole semplici quando un Paese emette una valuta che è anche usata a livello globale (come il dollaro), deve soddisfare due esigenze contrastanti. Una domanda internazionale di valuta: Perché il dollaro sia usato come riserva globale, gli Stati Uniti devono fornire al mondo una grande quantità di dollari. Questo avviene attraverso deficit commerciali (importano più di quanto esportano) o investimenti esteri. Stabilità interna: Tuttavia, un deficit commerciale continuo può indebolire l’economia interna, aumentando il debito e riducendo la fiducia nella valuta. Il paradosso sta nel fatto che se gli Stati Uniti non forniscono abbastanza dollari al mondo, il sistema finanziario globale potrebbe soffrire di una carenza di liquidità. Se invece forniscono troppi dollari, rischiano di creare squilibri economici interni, come inflazione o perdita di valore della valuta. Per capire meglio immaginiamo che il dollaro sia come l’acqua in un sistema di irrigazione globale. Gli Stati Uniti devono pompare abbastanza acqua per mantenere fertile il sistema, ma se pompano troppa acqua, rischiano di allagare il proprio giardino. Il dilemma di Triffin è stato centrale durante il sistema di Bretton Woods (1944-1971), quando il dollaro era ancorato all’oro ed ha causato la svolta del 1971. Ancora oggi, il dollaro è la principale valuta di riserva mondiale, e il dilemma continua a influenzare le politiche economiche globali.
[6] Il multipolarismo valutario si riferisce a un sistema economico globale in cui più valute giocano un ruolo significativo nelle transazioni internazionali e nelle riserve valutarie, anziché una singola valuta dominante, come il dollaro statunitense. Esso è caratterizzato da una diversificazione delle valute. Paesi e istituzioni finanziarie utilizzano una varietà di valute per il commercio e le riserve, come l’euro, lo yuan cinese, e altre valute regionali. La riduzione della dipendenza dal dollaro. Il multipolarismo valutario mira a diminuire l’influenza del dollaro, che è stato la valuta di riserva predominante per decenni. La promozione di valute regionali. Paesi come la Cina e la Russia stanno cercando di rafforzare le loro valute per competere con il dollaro e l’euro per ridurre il rischio di crisi finanziarie legate a una singola valuta e diminuire il potere economico di un singolo Paese, favorendo una distribuzione più equa.
[7] L’acronimo BRICS Plus si riferisce all’espansione del gruppo BRICS, che include Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Dal 2024, il blocco ha accolto nuovi membri: Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Questa espansione mira a rafforzare la cooperazione economica e politica tra i Paesi emergenti e a promuovere un sistema multipolare negli equilibri globali. Il BRICS Plus rappresenta una piattaforma per sfidare il predominio delle istituzioni occidentali e per sviluppare nuove strategie di collaborazione internazionale, soprattutto nel commercio, nella produzione energetica e nelle risorse naturali.
[8] La Shanghai Cooperation Organization (SCO) è un’organizzazione intergovernativa fondata nel 2001 da sei Paesi: Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. È nata come evoluzione del “Gruppo di Shanghai” (Shanghai Five), che si concentrava sulla cooperazione in materia di sicurezza e fiducia militare nelle regioni di confine.
Tre gli obiettivi principali: Sicurezza regionale: Combattere terrorismo, separatismo ed estremismo. Cooperazione economica: Promuovere il commercio e lo sviluppo economico tra i membri. Collaborazione culturale: Rafforzare i legami culturali e umanitari tra i Paesi membri. Oggi la SCO conta 10 membri: oltre ai fondatori, si sono aggiunti India, Pakistan, Iran e Bielorussia. Inoltre, ci sono Stati osservatori e partner di dialogo, come Mongolia, Afghanistan e altri. La sede principale si trova a Pechino, e l’organizzazione è considerata una delle più grandi al mondo per estensione geografica e popolazione rappresentata.
[*] Le swap lines degli Stati Uniti con le banche centrali sono strumenti che permettono di mettere in circolazione dollari in situazioni di scarsità di liquidità. Ecco come funzionano: Accordi di scambio: La Federal Reserve stipula accordi con altre banche centrali, come la BCE o la Bank of Japan, per fornire dollari in cambio di valuta locale. Questi accordi sono temporanei e mirano a garantire liquidità in dollari nei mercati internazionali. Prestiti in dollari: Le banche centrali estere ricevono dollari dalla Fed e li distribuiscono alle istituzioni finanziarie nei loro Paesi. Questo aiuta a stabilizzare i mercati e a prevenire crisi di liquidità. Riduzione delle tensioni: Le swap lines fungono da rete di sicurezza per i mercati globali, attenuando gli effetti delle tensioni finanziarie sulla concessione di crediti e sull’economia.
(https://www.newyorkfed.org/markets/desk-operations/central-bank-liquidity-swap-operations)
[**] I dazi USA-Cina sono arrivati al 145% dopo che la Cina aveva risposto al precedente aumento dei dazi da parte dell’America, portandoli circa al 125%. Questo dato supporta la tesi di un elevato livello di incertezza economica dovuto alla politica commerciale di Trump.
Secondo l’indicatore di Aver Analytics, l’incertezza economica dovuta alle politiche di Trump è ai massimi, praticamente pari a quella registrata ai tempi del Covid. Questo dato quantifica l’alto livello di incertezza percepita.
Il mercato obbligazionario globale ammonta a 140 trilioni di dollari, di cui 47 trilioni di dollari sono rappresentati dall’obbligazionario americano. Questi numeri sottolineano la dimensione e la potenziale volatilità del mercato obbligazionario USA.
Il mercato azionario americano ha registrato circa il -15% in 3 giorni, poi un +10% con l’annuncio della sospensione dei dazi, e un -4% il giorno successivo. Questi dati illustrano la reazione dei mercati alle politiche commerciali di Trump.
Nel 1970, il 95% del debito pubblico americano era in mano ad investitori americani, mentre solo il 5% era detenuto da investitori esteri. Questo dato fornisce un punto di partenza per mostrare l’evoluzione della detenzione del debito USA.
Nel 1995, la quota di investitori USA nel debito pubblico federale era scesa al 77%, e attualmente è al 71%. Questo indica un aumento significativo della quota di debito detenuta da investitori non americani, che ora è di circa il 30%.
Il Giappone detiene oltre 1 trilione di dollari in titoli di stato americani, mentre la Cina ne detiene 816 miliardi di dollari. Questi dati evidenziano la rilevanza degli investitori esteri, in particolare Cina e Giappone, nel mercato del debito USA.
La Cina ha già scaricato circa 454 miliardi di dollari di titoli di stato americani nel periodo 2013-2023. Questo dato supporta l’idea che alcuni grandi investitori esteri stanno riducendo la loro esposizione al debito statunitense.
Il rating del debito sovrano degli Stati Uniti è stato abbassato da S&P a AA+ e da FIT e Moodies a AA+ nel 2023, non più “tripla A”. Questo dato indica un deterioramento della valutazione del merito creditizio degli Stati Uniti.
Le probabilità di recessione per il 2025 sono a cavallo del 50%. Questa stima evidenzia un contesto economico potenzialmente debole che potrebbe influenzare la percezione del rischio del debito.
L’oro ha visto flussi in ingresso ai massimi nelle ultime quattro settimane, raggiungendo record. Questo dato suggerisce che gli investitori stanno cercando rifugi sicuri alternativi ai titoli di stato americani.
I Credit Default Swap (CDS), strumenti finanziari descrivibili come delle assicurazioni sul fallimento dei titoli di stato americani (se il rischio di fallimento sale, i CDS aumentano). Nell’ultimo periodo si è visto un aumento dei CDS. Attualmente, infatti, gli spread dei Credit Default Swap (CDS) a sei mesi sul debito pubblico degli Stati Uniti sono in aumento, riflettendo una crescente preoccupazione degli investitori riguardo al rischio di insolvenza a breve termine. Secondo i dati di S&P Global Market Intelligence, venerdì 11 aprile 2025 gli spread hanno raggiunto i 70 punti base, in salita rispetto ai 65 punti base del giorno precedente.
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