
Il Giappone subisce un corto circuito elettrico causato dai dazi USA e immagina un percorso di uscita dai vincoli Occidentali
Le tariffe statunitensi sulle auto elettriche giapponesi hanno innescato una ritorsione finanziaria da parte del Giappone. La miccia di questa crisi è stata accesa nel settore delle auto elettriche. Mentre il mondo correva verso l’elettrificazione dei veicoli, gli Stati Uniti hanno deciso di erigere nuove barriere sotto forma di dazi pesanti e mirati sui veicoli elettrici giapponesi. Aziende globali come Toyota, Nissan e Honda, che avevano investito miliardi in innovazione sostenibilità e nuove tecnologie elettriche, sono state colpite.
Già nel corso del primo mandato, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, avevano raggiunto, nel 2019, un accordo per potenziare gli scambi commerciali, con l’obiettivo di abbattere o ridurre le tariffe su vari prodotti alimentari e agricoli americani.
Grazie a questo accordo, il Giappone aveva aperto i suoi mercati a prodotti agricoli statunitensi per un valore di circa 7 miliardi di dollari riducendo le tariffe giapponesi o eliminandole completamente su manzo, maiale, grano, formaggio, mais, vino e altri prodotti.
Washington ha giustificato gli attuali dazi affermando la necessità di proteggere la propria industria nazionale, le proprie fabbriche e i propri posti di lavoro. Tuttavia, per Tokyo, il messaggio ricevuto era diverso: i progressi tecnologici giapponesi sono stati visti come una minaccia, e i dazi servirebbero a ostacolare drasticamente il loro ingresso nel mercato USA.
Per anni, il Giappone ha mantenuto una politica monetaria allineata detenendo riserve in dollari, rimanendo fedele a un patto tacito di stabilità in cambio di accesso ai mercati statunitensi. Ma ora che quell’accesso viene negato tramite i dazi, il Giappone si chiede perché dovrebbe continuare a finanziare il tenore di vita USA continuando a finanziare il suo debito.
Per decenni il Giappone è stato uno dei maggiori finanziatori del debito pubblico statunitense, acquistando titoli del tesoro USA. Comprare titoli non era solo una decisione finanziaria, ma un gesto diplomatico, un segnale di alleanza e fiducia. Dal 1985, in seguito all’Accordo di Plaza [1], il Giappone ha comprato titoli del tesoro americano anno dopo anno, riversando i suoi surplus commerciali in titoli emessi da Washington. Nel 2025, il Giappone detiene poco più di un trilione di dollari in titoli del tesoro americano.
La ritorsione finanziaria da parte del Giappone si è manifestata inizialmente in modo discreto: la vendita di un piccolo lotto di titoli americani, circa 20 miliardi di dollari, una cifra modesta rispetto agli oltre 1000 miliardi detenuti dal Giappone che potrebbe rappresentare la minaccia di un cambiamento di rotta rispetto all’alleato USA. Questa azione, da parte di un grande investitore istituzionale, data la sua esiguità non ha alterato i rendimenti dei titoli USA ma essa è stata interpretata dai mercati e dalla stampa come un segnale di allontanamento dai titoli del tesoro degli Stati Uniti da parte del Giappone [2].
Malgrado Katsunobu Kato, Ministro delle Finanze giapponese, abbia affermato il 9 aprile 2025 che il Giappone non intende utilizzare le sue riserve in titoli del Tesoro USA come leva contro le tariffe imposte dagli Stati Uniti sottolineando che le riserve valutarie giapponesi, che ammontano a circa 1.27 trilioni di dollari, siano gestite con l’obiettivo di intervenire sui tassi di cambio e non per scopi diplomatici o ritorsivi e anche Itsunori Onodera, capo della politica del Partito Liberal Democratico al governo, abbia espresso la necessità di rafforzare lo yen per contrastare l’aumento del costo della vita causato dalla debolezza della valuta. Anch’egli ha sostenuto il potenziamento della competitività industriale giapponese piuttosto che l’uso delle riserve in titoli del Tesoro USA come leva nelle trattative commerciali con gli Stati Uniti. Onodera ha esplicitamente respinto l’idea di utilizzare questi asset come contromisura alle tariffe imposte dal presidente Donald Trump, sottolineando che un ulteriore rafforzamento dello yen potrebbe danneggiare gli esportatori giapponesi.
Tuttavia nei corridoi dei ministeri giapponesi, la logica della ritorsione è chiara: se gli Stati Uniti usano il commercio come arma (imponendo dazi), allora il Giappone, in qualità di creditore degli Stati Uniti, potrebbe usare come scudo le sue riserve.
Se il Giappone cominciasse a vendere piuttosto che continuare a comprare i titoli del Tesoro USA si amplificherebbe lo sconvolgimento nei mercati finanziari, influenzando gli interessi che gli americani devono pagare per nuovi prestiti. Entro l’anno in corso oltre a dover pagare un trilione di dollari in costi per interessi, gli USA di Trump devono trovare il modo di collocare più di 9 trilioni di nuovi titoli a rimpiazzo di quelli in scadenza.
Il Giappone cerca potere negoziale per invertire le tariffe percepite come ingiuste sui suoi veicoli elettrici e segnala al mondo che non accetta più di essere trattato come un vassallo economico. L’obiettivo non è necessariamente il caos, ma ottenere rispetto.
Tokyo potrebbe quindi riconsiderare la sua tradizionale posizione di finanziatore del deficit americano per spingere gli Stati Uniti a fare marcia indietro sui dazi.
Le possibili implicazioni per le alleanze globali e il sistema monetario internazionale
Il Giappone, per lungo tempo pilastro dell’ordine finanziario americano, ha compiuto un passo che, seppur misurato, porta il peso di una potenziale dichiarazione di guerra fredda sul piano economico. Washington ha giustificato i suoi dazi sull’elettrico giapponese come protezione dell’industria interna, ma la risposta del Giappone, da parte del ministero delle finanze, era già rivolta alla diversificazione sin dallo scorso gennaio:
“In 2025, we will continue to diversify our approach to investors.”
(Nel 2025, continueremo a diversificare il nostro approccio verso gli investitori.)
Un eufemismo, subito compreso dai mercati, che potrebbe minacciare un allontanamento dai titoli del tesoro degli Stati Uniti. Per decenni, il Giappone è stato tra i maggiori finanziatori del debito americano, e l’acquisto di questi titoli era visto come segnale di alleanza e di fiducia. Una minore domanda di debito americano riduce la fiducia nella valuta statunitense.
Già il predecessore di Bessent, Janet Yellen, aveva più volte enfatizzato il valore della fiducia e della cooperazione tra Stati Uniti e Giappone: “Sono profondamente orgogliosa della forte relazione tra Stati Uniti e Giappone, basata sulla fiducia, il rispetto e legami profondi” .U.S. Department of the Treasury
Inoltre, in un’intervista rilasciata nell’aprile 2025, Yellen aveva espresso preoccupazione per le politiche tariffarie dell’amministrazione Trump, affermando come tali misure stessero erodendo la fiducia negli impegni economici e negli asset finanziari degli Stati Uniti .Reuters
I tradizionali grandi acquirenti del debito USA appaiono sempre meno disposti a colmare il vuoto lasciato dalla Cina che da anni sta riducendo la sua esposizione mentre l’Europa ha le sue proprie crisi, i paesi del Golfo diversificano e i paesi emergenti usano sempre più le proprie valute. Soprattutto Trump sa che deve tenersi buoni i grandi fondi di investimento USA (con cui è recentemente entrato in rotta di collissione) che collocano una buona fetta del debito pubblico USA presso quei risparmiatori finanziarizzati sparsi in tutto il mondo. Il Giappone potrebbe essere il primo paese del G7 a rompere definitivamente con il dollaro. La storia delle egemonie valutarie suggerisce che esse crollano per un accumulo di disallineamenti e di reciproche diffidenze. Una vendita seppur limitata del portafoglio giapponese, nell’attuale congiuntura economica, potrebbe innescare un effetto domino sui mercati USA. Al Giappone basterebbe anche solo suscitare il dubbio d’essere intenzionato a disfarsi del debito USA.
Il patto tacito post-bellico di stabilità in cambio di accesso al mercato USA si incrina con l’accesso negato dai dazi. Il Giappone, tradizionale garante degli Stati Uniti in Asia ha cominciato a inviare segnali inequivocabili che potrebbero ridisegnare le alleanze geoeconomiche. Il modello post-1945 di dipendenza dalla sicurezza USA in cambio di connessione al sistema del dollaro appare sempre meno saldo. Il Giappone potrebbe avvicinarsi a paesi come Cina o Corea del Sud su temi chiave come tecnologia, catene di approvvigionamento e valute alternative al dollaro. Il Giappone potrebbe diventare la porta d’ingresso per un’Asia già frustrata dal modello americano. Cina, Arabia Saudita, Germania e Brasile dipendono dalla stabilità del sistema USA ma sono in difficoltà con le decisioni unilaterali di Washington. In sintesi la tenuta del debito USA è legato al mantenimento della fiducia dei risparmiatori mondiali. Tale fiducia potrebbe venir meno se lo scontro con paesi come Giappone e Cina si protraesse fino alle estreme conseguenze. Si consideri che anche l’uso del dollaro
I tradizionali grandi acquirenti del debito USA appaiono sempre meno disposti a colmare il vuoto lasciato dalla Cina che da anni sta riducendo la sua esposizione mentre l’Europa ha le sue proprie crisi, i paesi del Golfo diversificano e i paesi emergenti usano sempre più le proprie valute. Soprattutto Trump sa che deve tenersi buoni i grandi fondi di investimento USA (con cui è recentemente entrato in rotta di collissione) che collocano una buona fetta del debito pubblico USA presso quei risparmiatori finanziarizzati sparsi in tutto il mondo. Il Giappone potrebbe essere il primo paese del G7 a rompere definitivamente con il dollaro. La storia delle egemonie valutarie suggerisce che esse crollano per un accumulo di disallineamenti e di reciproche diffidenze. Una vendita seppur limitata del portafoglio giapponese, nell’attuale congiuntura economica, potrebbe innescare un effetto domino sui mercati USA. Al Giappone basterebbe anche solo suscitare il dubbio d’essere intenzionato a disfarsi del debito USA.
Il patto tacito post-bellico di stabilità in cambio di accesso al mercato USA si incrina con l’accesso negato dai dazi. Il Giappone, tradizionale garante degli Stati Uniti in Asia ha cominciato a inviare segnali inequivocabili che potrebbero ridisegnare le alleanze geoeconomiche. Il modello post-1945 di dipendenza dalla sicurezza USA in cambio di connessione al sistema del dollaro appare sempre meno saldo. Il Giappone potrebbe avvicinarsi a paesi come Cina o Corea del Sud su temi chiave come tecnologia, catene di approvvigionamento e valute alternative al dollaro. Il Giappone potrebbe diventare la porta d’ingresso per un’Asia già frustrata dal modello americano. Cina, Arabia Saudita, Germania e Brasile dipendono dalla stabilità del sistema USA ma sono in difficoltà con le decisioni unilaterali di Washington. In sintesi la tenuta del debito USA è legato al mantenimento della fiducia dei risparmiatori mondiali. Tale fiducia potrebbe venir meno se lo scontro con paesi come Giappone, Cina ed Unione europea si protraesse fino alle estreme conseguenze. Si consideri che anche l’uso del dollaro nei mercati internazionali – legato a doppio filo con la sostenibilità del debito USA – dipende dalla fluidità degli scambi internazionali.
L’Europa, anch’essa colpita dalle tariffe statunitensi, simpatizza con il Giappone valutando una cooperazione più stretta per contrastare le politiche commerciali protezionistiche degli Stati Uniti.
Acquista valore strategico l’accordo di libero scambio, EPA, tra l’Unione Europea e il Giappone, la più grande area economica aperta al mondo. Questo accordo è ora visto come una risposta diretta al protezionismo dell’amministrazione Trump, con l’obiettivo di promuovere il libero commercio e stabilire un contrappeso alle politiche unilaterali degli Stati Uniti.
In Germania, i grandi produttori automobilistici studiano un fronte diplomatico congiunto con Tokyo per fare pressione su Washington per “regole commerciali più eque. Anche il Canada ha iniziato a rivalutare la sua dipendenza dai titoli del tesoro americani dopo l’offensiva giapponese. Paesi asiatici e persino l’Australia discutono di diversificazione valutaria e accordi diretti in valute regionali. Tokyo non vuole abbattere la struttura, ma riformarla, desiderando un palco dove tutti possano parlare, ascoltare ed essere ascoltati. Il Giappone sembra voler aprire a una nuova era in cui l’autonomia possa prendere il posto della dipendenza. Si assiste alla nascita di un nuovo equilibrio globale, dove le alleanze vengono riviste e il potere si misura meno con l’imposizione e più con la visione a lungo termine. In pratica la cultura ed il modus operandi relazionale dei paesi BRICS+ ha ormai invaso e informa di sè il vecchio mondo fondato sull’egemonia unipolare angloamericano.
La via d’uscita dagli squilibri ormai strutturali di cui soffre il mondo e rifondare su nuove basi le relazioni economiche tra Paesi necessita sempre più chiaramente la necessità di abbandonare l’idea che il sistema di pagamento internazionale possa avere al suo centro la moneta dell’impero di turno foriera di conflitti che degenerano immancabilmente in guerra. È tempo di reinterpretare modernamente ed attuare quella proposta di finanza di pace di cui si era fatto portatore J.L.M.Keynes nel 1944 a Bretton Woods nel 1944 per un mondo strutturalmente collaborativo (vedi Un mondo nuovo è in costruzione. Una seconda occasione che il mondo non deve mancare).
[1] L’Accordo del Plaza del 1985 (firmato all’Hotel Plaza di New York) fu un accordo cruciale tra le nazioni del G5 (USA, Giappone, Germania Ovest, Francia, Regno Unito). Per quanto riguarda i rapporti tra USA e Giappone, l’accordo stabilì principalmente quanto segue:
- Obiettivo USA: Ridurre l’enorme deficit commerciale statunitense, che era particolarmente pronunciato nei confronti del Giappone (e della Germania Ovest). Gli USA ritenevano che il dollaro fosse sopravvalutato, rendendo le esportazioni americane troppo costose e le importazioni (soprattutto giapponesi) troppo convenienti.
- Azione Concordata: I paesi partecipanti concordarono di intervenire in modo coordinato sui mercati valutari per deprezzare il dollaro USA rispetto principalmente al marco tedesco e allo yen giapponese.
- Impegno Giapponese: Il Giappone, sotto forte pressione statunitense, accettò di permettere un significativo apprezzamento dello yen rispetto al dollaro. L’idea era che uno yen più forte avrebbe reso i prodotti giapponesi (auto, elettronica, ecc.) più costosi per i consumatori americani e, viceversa, i prodotti americani più economici per i consumatori giapponesi, contribuendo così a riequilibrare la bilancia commerciale tra i due paesi.
In sostanza, l’Accordo del Plaza rappresentò un impegno formale, guidato dagli USA e accettato dal Giappone, a manipolare i tassi di cambio per correggere gli squilibri commerciali bilaterali, portando a un drastico e rapido rafforzamento dello yen nei confronti del dollaro negli anni successivi.
[2] All’inizio di aprile 2025, il Giappone ha venduto oltre 20 miliardi di dollari in obbligazioni estere, principalmente titoli del Tesoro USA. Questa decisione è stata innescata dall’annuncio del presidente Donald Trump di nuove tariffe commerciali il 2 aprile, evento che ha scatenato una forte volatilità nei mercati globali. Secondo il Ministero delle Finanze giapponese, nella prima settimana di aprile sono stati venduti 17,5 miliardi di dollari in obbligazioni a lunga scadenza, seguiti da ulteriori 3,6 miliardi nella settimana successiva. Le motivazioni principali dietro questa mossa includono il ribilanciamento dei portafogli da parte dei fondi pensione e lo smantellamento di strategie di copertura da parte delle banche . Financial Times+1Reuters+1.
La vendita ha contribuito ad un aumento significativo dei rendimenti dei Treasury a 10 anni, segnalando una diminuzione della domanda per questi titoli. Contemporaneamente, l’indice S&P 500 ha registrato un calo del 12% in quattro giorni, evidenziando la sensibilità dei mercati alle decisioni di grandi detentori di debito USA come il Giappone. Anche il dollaro ha subito pressioni al ribasso, mentre l’oro ha raggiunto i 3.500 dollari l’oncia, riflettendo l’aumento dell’avversione al rischio tra gli investitori .Financial TimesFinancial Times.
Secondo il Wall Street Journal, le politiche commerciali aggressive dell’amministrazione Trump potrebbero minare la fiducia degli investitori stranieri nei confronti degli asset statunitensi, portando a un aumento dei costi di finanziamento per il governo e le imprese americane. Inoltre, la crescente instabilità politica e le tensioni commerciali hanno sollevato dubbi sulla sostenibilità del ruolo del dollaro come valuta di riserva globale. Alcuni analisti suggeriscono che, se queste tendenze dovessero persistere, potrebbero verificarsi cambiamenti significativi nei flussi di capitale internazionali e nella struttura del mercato obbligazionario globale.
articoli correlati a cura dell’autore
Quale soluzione per squilibri economici che degenerano in guerra
Un mondo nuovo è in costruzione. Una seconda occasione che il mondo non deve mancare
La transizione in atto verso un mondo nuovo è ormai frenabile solo dalla guerra globale
Gli squilibri economici ristrutturano il mondo Rimettere in primo piano l’economia interna
Il conflitto di Trump con la FED. ReArm Europe soccorre i grandi fondi agevolando le manovre del presidente
La diplomazia russo-cinese riporta la Pace laddove gli USA avevano seminato la guerra
L’Occidente e le sue maggiori istituzioni in un vicolo cieco evolutivo
Dall’economia di guerra ad un’economia di pace
Un Target da centrare
Guerra economica e sostegno coatto al dollaro
La guerra bombarda l’Europa
© COPYRIGHT Seminare domande
divieto di riproduzione senza citazione della fonte
canale telegram di Seminare domande
https://t.me/Seminaredomande
Iscriviti per ricevere notifica ad ogni nuovo articolo